di Antonella Bonaffini
“Non nel mio nome ” aveva urlato mamma Marina, la madre di Marco Vannini, alla lettura della sentenza di secondo grado che vedeva per Antonio Ciontoli, imputato per l’uccisione del suo unico figlio, la pena ridursi da 14 a 5 anni. E l’ Italia intera, senza distinzione alcuna, si era stretta intorno al dolore di quei genitori, acclamando a gran voce che fosse la stessa politica ad intervenire per far chiarezza su quella che per tutti, era una vicenda che presentava contenuti alquanto oscuri, discordanze gravissime, che la sera del 17 maggio 2015, in circostanze tutt’oggi poco chiare, portarono un ragazzo di soli vent’anni anni a morire. L’accusa, in aula avrebbe anche potuto tacere, perché tra testimonianze, intercettazioni, omissioni e telefonate fatte al 118 , quello di Vannini era un processo che avrebbe dovuto ricondursi alla verità anche da solo e risolversi in un’unica direzione. Eppure, quella condanna a quattordici anni, già ampiamente contestata, inaspettatamente trova in appello un epilogo impensabile, cinque anni, cinque anni che portano una nazione intera prima ad ammutolirsi, poi a mobilitarsi, chiedendo alla stessa politica un intervento sull’operato della magistratura. E poi il colpo di scena. Un servizio di un noto programma televisivo, che intervista un super testimone. Ciontoli, a suo dire, si sarebbe autoaccusato per non “inguaiare” il proprio figlio, lo stesso figlio che chiama il 118 quando i tempi per poter salvare il Marco erano ancora ammissibili, lo stesso figlio che denuncia che un ragazzo di soli venti anni è stato vittima di un grave malore dovuto ad uno scherzo, lo stesso figlio che annulla la richiesta di intervento dei soccorsi, assicurando che l’ambulanza non sarebbe servita. Eppure, poi il 118 viene richiamato, questa volta dal padre di Federico, che si guarda bene dal dire quanto poi confermerà in un’aula di tribunale, cioè di aver sparato un colpo per gioco, riconducendo l’incidente ad un piccolo foro causato dalla caduta accidentale di un pettine appuntito. L’ambulanza arriva, i sanitari si accorgono subito che la situazione è gravissima, Marco sale sull’ambulanza completamente da solo, nessuno lo accompagna. Nessuno chiama mamma Marina, solo Marco, è straziante il sottofondo della telefonata al 118 che riprende la sua voce. La pallottola entra da una distanza di 25 cm, viene sparata dall’alto verso il basso, entra dalla spalla ed esce dal fianco. Probabilmente il foro fu subito compresso, tanto da fermare il deflusso del sangue. Questo, probabilmente fece si che la famiglia Ciontoli, si convincesse incautamente che la situazione non fosse grave. Il proiettile non aveva colpito le cavità cardiache o l’aorta, perché contrariamente, la morte sarebbe stata fulminea. L’emorragia parte dalla cavità toracica, con un massiccio versamento bilaterale a livello toracico, un versamento che si protrae in maniera lenta e dolorosissima e che porta Marco Vannini, a perdere un litro e mezzo di sangue in un’ora e trenta minuti, come confermato dal dott- Luigi Cipolloni, che ha relazionato la perizia autoptica. Nessuna lesione alle valvole atrioventricolari pertanto ma si è perso tempo, troppo tempo, un tempo che avrebbe potuto rivelarsi prezioso e non portare il ragazzo allo shock emorragico che ne ha poi segnato il decesso.
A questo punto, a noi sembra paradossale interrogarsi ancora su chi quella sera abbia realmente premuto il grilletto. Una verità mai raccontata urla oggi giustizia ma appare inverosimile che in Italia, debba essere il programma delle Iene a perorar questa causa, nell’intento di fare il modo che Marco Vannini possa finalmente avere giustizia, quella stessa giustizia che un tempo, forse oggi troppo lontano, avrebbe dovuto esser acclamata nelle aule di un tribunale, forse persino festeggiata, ma che nel teatrale trionfo di una menzogna che forse cosi perfetta non era, ad un ragazzo di soli venti anni è stata negata.