Ninni Ferrara: dal teatro alla pittura, una magia che si rinnova

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di Antonella Bonaffini

Oggi voglio proporvi l’intervista a Ninni Ferrara, un amico, un Artista, una persona che ho sempre stimato ed ammirato per il suo modo di approcciarsi alla vita. Ninni scrive sempre ciò che è giusto, dipinge in un modo molto singolare. Ninni ride, soffre, piange ma trova sempre il modo di sapersi raccontare.

Ninni, ci racconti come hai iniziato a dipingere? – Come tutti gli eventi della mia vita, anche l’accostarmi alla pittura è stato un caso. Amo definirmi uno che racconta le storie; le favole.Per quasi trent’anni il luogo d’elezione del mio racconto è stato il teatro. In tutte le sue forme. Dalla recitazione, alla regia, alla drammaturgia. E l’attività didattica, anche.Ho sempre pensato al teatro e a qualsiasi forma d’arte non solo come un mestiere, ma soprattutto come un dono, come un privilegio.A questo sono stato educato dai miei Maestri; da Giancarlo Sbragia ad Aldo Nicolai, da Gabriele Ferzetti a Enrico Maria Salerno.E come un dono ho accettato riconoscimenti e delusioni. Queste ultime pure come uno sprono ad andare avanti, a confrontarsi con sé stessi; a superarsi, anche.

Tu ha vissuto “quel “momento che cambia l’approccio di una persona alla vita. Vuoi parlarcene? – Assolutamente si. Con questi pensieri incisi in me, corpo e anima, ho affrontato anche una malattia che mi ha colpito nel 2011. In quell’istante, ogni cosa sembrò crollare. Basti immaginare che da un giorno all’altro mi fu impossibile continuare il mio mestiere, stretto tra i denti di una sofferenza improvvisa che mai prima si era manifestata. La mia via era improvvisamente tramutata. Era divenuta un sentiero strettissimo, in salita, irto di ostacoli. La mia famiglia, i pochi amici con cui mi ero confidato furono il mio sostegno più vero. Mi aggrappai ancora alla mia arte, alla scrittura. Pubblicai Il mio libro, “Grani”, e di nuovo misi in scena nuove pièce, sfuggendo in qualche modo a un male che di nuovo mi aggrediva. Nel 2016 persi mio padre, il mio migliore amico. L’anno successivo subii un intervento chirurgico molto serio. Molto grave. Permanentemente invalidante. Fui stomizzato in modo definitivo. Durante la lunga convalescenza, anche per essere più vicino alla persona che allora mi era accanto, e che dipingeva, mi avvicinai per la prima volta all’acquerello. Avevo già 52 anni. Fu un amore immediato ma molto pudico. Denso delle paure che affronta chiunque, a metà del proprio cammino, si ritrovi nella condizione di ricominciare. Il mio corpo mi impediva di progredire e tratteneva la mia anima dal lanciarsi in una nuova corsa. Poi, piano piano, nel mezzo di una pandemia che non avvertivo, costretto dalla mia nuova condizione di “disabilità”, capii che avevo bisogno della stessa leggerezza che mi veniva restituita da quegli acquerelli, certamente ingenui, che mi sfidavano ogni volta fino al punto dell’errore.

I tuoi acquerelli sono magnifici. Sicuro che non avevi mai approcciato prima questa tecnica? – Cominciai a studiare, da solo, guardando ogni giorno centinaia di dipinti, sperimentando il più corretto uso del pennello, del colore, lasciandomi fascinare dall’eterogeneo linguaggio della pittura, così ricco di mille sfumature. Cominciai a ritrovare, attraverso la pittura, il mio essere teatro. Il mio amare Grotowski, Brook, De Berardinis, mi conducevano verso l’espressionismo astratto del secondo novecento, da Zao Wou ki a Joan Mitchell, Emilio Vedova, Kandinskj, Helen Frankenthaler. Rinvenire, nei dipinti di Guttuso o Migneco o Christian Hess, le mie letture più amate; Verga, Vittorini, Pirandello, Sciascia: la mia terra. Assaporai il primo piacere che viene dal mescolare tra loro tecniche e mezzi diversi; l’inchiostro, il pastello, il carboncino, la grafite, l’acrilico. La poesia, sopra ogni cosa, ancora.  Cominciai a comprendere che il “mio racconto” si snodava ugualmente, anche attraverso linguaggi che avevo ritenuto una spanna lontani del teatro, nonostante il teatro, la scenografia, l’arte della luce, spesso si appropriasse di essi. Affrontai la timidezza del mostrare i primi lavori. Il timore di “non riuscire ad arrivare”, di non riuscire a dire, a esprimere ciò che fino a due anni prima era stato totalmente senza parole.

E adesso? Sono parole, quello che dipingo? Sono un racconto?                                     Non so rispondere. Non io. Chi guarda un mio dipinto, sì, potrebbe.

Posso dire che il mio studio, quando dipingo, è come se elidesse le sue pareti ed io mi lascio andare al sogno dei colori. Gli esiti della malattia, il mio handicap, mi costringono a una vita diversa, che scivola dentro le pareti domestiche, ma la pittura mi ha restituito quella dignità di uomo che non credevo di avere più.Un uomo che ha ritrovato la curiosità; il primo seme non solo di ogni artema di ogni passo, io credo.E da ultimo, ho incontrato una donna che crede nel mio racconto, o in quella poesia cui accennavo prima. È grazie a lei, a Elena Ferrari, Art Director di PassepARTout Unconvetional Gallery, che con i miei dipinti parteciperò alla Art&Design Week, a Milano, dal 4 al 12 Giugno; e poi a Montecarlo, dal 24 al 26 Giugno, alla 4° edizione dell’International Contemporary Art Fair; infine a “Couleurs sans Frontières” 2022, una esposizione virtuale in favore dell’Ucraina.

E alla vigilia di questi appuntamenti, finalmente ritrovo gli stessi brividi provati a ogni “prima”. In teatro.

Ché la vita non è teatro, ma il teatro, sì. È la vita.