Massimo Bossetti: Un ambiguo codice comportamentale

1985

 

 



di Antonella Bonaffini

Da tempo, una schiera di innocentisti, sia a mezzo social che a mezzo stampa, ha perorato con vivida determinazione la causa di Massimo Bossetti, colui che per l’omicidio di Yara Gambirasio fu condannato all’ergastolo, colui che rispetto a quanto contestatogli si è da sempre professato innocente.
Eppure, le prove a suo carico per la Cassazione si erano rivelate schiaccianti, tanto da condannarlo al massimo della pena. Ed a nulla era servita la difesa di mamma Ester che era morta con la pena di non poter vedere il proprio figlio far ritorno a casa. Ma dagli atti processuali, ultimamente, emergono passaggi che sono a dir poco inquietanti e che rivelano una personalità fortemente disturbata, perché benché se ne dica, Massimo Bossetti non è solo un marito, il marito della bella Marita, ma è anche e soprattutto, un padre. Il giovane operaio di Mapello, lontano dal lavoro, invece che dedicarsi alla moglie ed ai figli, avrebbe utilizzato il suo computer mettendo nel motore di ricerca “tredicenne, rossa, vergine” e se ciò non dovesse bastare, di recente è stata la criminologa Anna Vagli a svelare episodi che denoterebbero una personalità fortemente e peccaminosamente protesa ad un sesso vizioso, legato per l’appunto ad adolescenti. Massimo Bossetti in carcere, avrebbe indirizzato non una, non due, non dieci ma ben quaranta lettere ad una detenuta, missive ad alto contenuto pornografico. Quello che si è sempre professato come una vittima, appare lucidamente freddo nell’invitare la detenuta a non tener conto di quella che è una situazione famigliare consolidata, con frasi spinte che mal si adatterebbero all’uomo che dopo la sentenza, secondo una testimonianza, aveva addirittura tentato di togliersi la vita, salvandosi in extremis grazie all’intervento dei suoi compagni di cella. Yara Gambirasio non morì per le ferite inflitte ma dopo aver perso le forze, probabilmente cercando di scappare da chi l’aveva aggredita, sopraffatta dal gelo della notte, lasciandosi andare in un campo distante circa una decina di chilometri da casa.
Sui suoi slip, tracce del DNA dell’imputato che quella sera, non aveva fatto certamente i conti col fatto che Yara fosse una ginnasta e che probabilmente reagì, destabilizzando il suo lurido piano. Eppure, Massimo Bossetti continua impassibile a difendersi, e dalla sua cella urla la sua innocenza. Ma forse, e dico solo forse, l’atteggiamento di un padre condannato all’ergastolo per l’omicidio di una ragazzina di soli tredici anni, avrebbe dovuto di fatto prevedere anche in carcere, una condotta di diverso tipo.